sabato 6 giugno 2015

I colori del vuoto


Ho appena terminato di leggere “I colori del vuoto”, una raccolta di racconti editi da liberedizioni e scritti da autori d’eccezione: persone che sono state adottate, genitori biologici e genitori adottivi. Quel che ne esce è uno spaccato interessante che mostra il tema dell’adozione nelle sue diverse sfaccettature, dando voce a tutti i punti di vista. Prevalentemente parlano i figli adottivi, ma talvolta anche i genitori prendono la parola. I racconti sono molto diversi, ma hanno un denominatore comune: il dolore che accompagna i soggetti in causa per tutta la vita, il senso di vuoto e di perdita delle radici che non si colma mai.

Nell’immaginario collettivo c’è una visione assai bucolica e idealizzata dell’adozione. Uno pensa che negli orfanatrofi i bambini stiano tutto il giorno in paziente e adorante attesa di incontrare una famiglia di buon cuore.  Uno immagina anche che, quando ciò accade, il figlio adottivo scoppi di gratitudine verso i nuovi generosi genitori e vissero tutti felici e contenti fino alla fine dei loro giorni.

Ciò che emerge da questo libro è che la realtà delle adozioni è un mondo assai più complesso e meno stucchevole di quello che si vorrebbe credere. Il che non significa che l’adozione non sia una istituzione meravigliosa e talvolta indispensabile per dare una vita migliore e più opportunità a un minore che diversamente non ne avrebbe. Però non è il paradiso.

L’assioma di questo libro è che chiunque cresca in una famiglia non sua, (che ci sia arrivato in fasce o già grandicello e consapevole), non possa fare a meno di ricercare le proprie origini. L’assunto  è che è possibile amare una madre adottiva con tutto il cuore, ma è impossibile non sognare, desiderare, immaginare, idealizzare la madre biologica, la madre di pancia, la culla umana in cui si sono trascorsi i nove mesi della gestazione e talvolta anche qualche altro momento successivo. (Nel libro viene espresso prevalentemente il desiderio di incontrare la madre, i padri rimangono sullo sfondo e anche coloro che scrivono sono in prevalenza delle donne).

La madre adottiva può essere buona e paziente finché si vuole, ma ha pur sempre un viso diverso, un colore differente e soprattutto un altro odore. Quando poi il bambino adottato appartiene addirittura a un’altra etnia, perché magari proviene dall’altra parte del mondo, l’estraniamento  è totale. L’adottato non solo si sente diverso nella sua stessa famiglia, ma diverso pure nel suo paese, dove gli accade persino di subire episodi di razzismo. Quando poi, crescendo, questo figlio tenta di tornare alle sue origini, in Corea, in Cina, in India, capisce di non essere davvero coreano, cinese, indiano, perché di fatto è cresciuto altrove. Quindi trovare la propria radice è a maggior ragione complicato. (Dal racconto “Straniera a metà”).

Apro una parentesi: mio padre ha insegnato al liceo per quarant’anni e tra le centinaia o forse migliaia di alunni che ha avuto, c’erano anche dei figli adottivi, magari giunti in Italia con un’adozione internazionale. Ebbene, mio padre non mi ha mai descritto l’adozione come una situazione ottimale, vedeva un tipo di disagio ricorrente in quei ragazzi. In qualche caso è anche capitato che, se erano di origine straniera, compiuta la maggiore età sparissero in cerca delle loro origini, senza mai più mettere piede a scuola.

E che dire delle famiglie adottanti, delle madri di cuore? Non sempre tra figlio adottivo e madre adottiva sono rose e fiori. Il bambino che ha subito il trauma dell’abbandono è un bambino che ha assolutamente bisogno di un surplus d’amore per colmare la lacuna. È un infante che ripone molte aspettative nella famiglia che lo adotta, perché questa famiglia dovrà non solo essere normale, ma super. Al piccolo figlio adottivo non possono andare bene dei genitori qualunque, per quanto armati delle migliori intenzioni: ci vuole qualcuno con un quid in più. Succede però, talvolta e non sempre, che altrettanta aspettativa venga riposta dal genitore adottante verso il figlio adottivo. Accade anche che una donna scelga di adottare un bambino per colmare il proprio personale vuoto (dovuto alla sterilità), per appagare il proprio desiderio (o capriccio?) di avere un figlio. In questo caso è un disastro. Non lo dico io, lo spiega l’autrice del racconto “Le due madri”.

Infine, la madre biologica, la tanto vituperata figura della madre degenere che abbandona il figlio. Quello che di solito si omette è che quando madre e figlio vengono separati, il trauma vale per entrambi e non si risolve mai. Come madre io non riesco a immaginare un dolore più grande che vedermi strappare un figlio. Non riesco a figurarmi una donna che abbandona il proprio bambino senza una ragione valida, senza una disperazione ancora più grande. Dal libro si intuisce che in un passato non troppo lontano deve essere accaduto veramente di tutto, che spesso e volentieri le ragazze che restavano incinte fuori dal matrimonio venivano costrette dai parenti ad abbandonare il neonato per non macchiare l’onore della famiglia e che in qualche caso non era consentito loro di vedere il bambino neppure una volta prima di lasciarlo andare. Se poi ci si mettevano di mezzo le suore e gli istituti religiosi, con la loro omertà e i loro muri di gomma, diventava impossibile cambiare idea e tornare indietro. Dunque, le madri biologiche che fanno capolino nel libro sono spesso giovani plagiate dai genitori, talvolta costrette con l’inganno, schiacciate da una morale bigotta e troppo deboli per opporsi.

Questo nodo è tra quelli che mi recano maggiore struggimento: il momento del distacco della madre dal figlio. Nel racconto “Può una madre dimenticare suo figlio?”, c’è un passaggio molto simile a quello che ho trovato nel libro “La donna è un’isola” dell’islandese Auður Ava Ólafsdóttir. In “La donna è un’isola”, la protagonista è una sconclusionata trentenne appena lasciata dal marito che intraprende un viaggio per tutta l’Islanda insieme al figlio di quattro anni di una sua amica. Il viaggio è in fondo un percorso interiore e mentre lei affronta il suo malessere, si intuisce che a quindici anni aveva dato alla luce un bambino che era stato dato in adozione. Il neonato si avvinghia alla donna che lo ha appena partorito, non vorrebbe staccarsi per nessuna ragione, ma qualcuno arriva e lo porta via, lasciando nella puerpera un vuoto incolmabile. Dopo non è possibile proseguire con la propria vita come se nulla fosse stato.

Le storie narrate nella raccolta sono varie, in alcuni casi gli adottati riescono a ritrovare la famiglia d’origine, in altri casi non c’è il lieto fine, la figura sognata della madre naturale, sempre presente ma sconosciuta, rimane una chimera.

L’associazione FAEGN (Figli adottivi e genitori naturali) che ha patrocinato il libro si batte affinché la legge sia ulteriormente modificata e dia più possibilità ai figli adottivi di ritrovare le proprie origini, nella tutela dei diritti di tutti.

Io non posso che augurare loro di riuscirci.

Copyright Elena Genero Santoro Giugno 2015

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