venerdì 12 giugno 2015

Recensione: Il profumo del sud di Linda Bertasi


Oggi ho il piacere di parlarvi di un romance storico che ho avuto il piacere di leggere e recensire un po' di tempo fa. Ora il libro è stato pubblicato, la seconda edizione ha dei CONTENUTI INEDITI e ha una copertina tutta nuova ed è pronto per farsi riscoprire. La prefazione è di Adele Vieri Castellano.
L'autrice è Linda Bertasi e il titolo è "Il Profumo del Sud".
Questo romanzo ha inoltre ottenuto la QUALIFICA DI MERITO COME ‘AUTORE COMMENDEVOLE’ AL VII PREMIO LETTERARIO EUROPEO ‘MASSA CITTA’ FIABESCA DI MARMO E MARE’


SITO UFFICIALE: http://ilprofumodelsud.blogspot.it/
Booktrailer: https://www.youtube.com/watch?v=LpYYP0m0HHs
Link per l'acquisto: http://www.amazon.it/profumo-del-sud-Linda-Bertasi-ebook/dp/B00Z3TNZPA/ref=sr_1_6/280-4617613-5049727?s=digital-text&ie=UTF8&qid=1433742808&sr=1-6


Adesso gli approfondimenti:




SINOSSI: Porto di Genova 1858 - Venuta a conoscenza del suo scomodo passato, Anita Dalmasso decide di partire per il Nuovo Mondo. La traversata dell’Atlantico segnerà profondi mutamenti nella sua vita: l’incontro con l’affascinante uomo d’affari americano Justin Henderson e quello con Margherita Castaldo, liberale e impavida proprietaria terriera. Giunta a New York seguirà la nuova amica nella sua piantagione a Montgomery e qui sarà conquistata dalle bianche distese di cotone, dai profumi e dai colori del profondo Sud americano, con i suoi contrasti e le sue ingiustizie. Il destino avrà in serbo per lei non solo il rosso della passione, ma anche i travolgenti venti di guerra che si profilano all’orizzonte e che porteranno un’intera nazione alla guerra civile, sconvolgendo ancora una volta il corso della sua esistenza.


La mia RECENSIONE
Ho già recensito un romanzo dell’autrice Linda Bertasi, “Destino di un amore” e ne avevo parlato indubbiamente bene, per i colpi di scena, per lo stile fluido, per la ricchezza della trama. Ma in “Profumo del sud”, la sua terza pubblicazione, questa talentuosa autrice italiana dimostra di essere cresciuta molto e di aver saputo esprimere al meglio tutte le sue potenzialità. Intanto Profumo del Sud è un romanzo storico, ed è veramente storico, nel senso che gli avvenimenti della Storia non sono solo un fondale, un’ambientazione, ma si mescolano con la trama e ne influenzano l’andamento. E poi la Bertasi dimostra di essersi documentata approfonditamente e accuratamente in merito, per cui sembra di essere veramente lì, nelle sterminate praterie del Sud, nella piantagioni di cotone e di respirare le tensioni politiche, nonché l’aria di guerra tra i Nordisti e i Sudisti che sarebbe scoppiata di lì a poco. Insomma, il contesto in cui questa storia è ambientata è impeccabile. Inoltre tengo poi a sottolineare la forza descrittiva con cui l’autrice rende il lettore partecipe. Linda Bertasi pennella alla perfezione i luoghi, i costumi, ma anche gli stati d’animo. Ho trovato particolarmente efficaci alcuni passaggi in cui persino la luce della stanza riflette il tormento interiore di Anita, la protagonista indiscussa di tutto il romanzo. E veniamo dunque a noi: dicevo, Anita, la coraggiosa eroina che abbandona l’Italia per una meta sconosciuta e approda, quasi per caso, in Alabama e non riuscirà più ad andarsene. Scoprirà una terra affascinante ma con delle indubbie contraddizioni e non riuscirà mai ad approvare il razzismo, che però è assolutamente radicato nella mentalità di coloro che hanno già colonizzato quel luogo in precedenza. Infine c’è la storia d’amore tormentata tra Anita, che in America ha assunto il nome di Isabella, e Justin, un libertino accanito (forse più in apparenza che in sostanza). Isabella e Justin hanno un background culturale molto diverso (li accomuna solo l’essere entrambi, in un certo senso, anticonvenzionali) ma sono attratti fatalmente l’uno dall’altra. Isabella e Justin vivranno la loro passione, ma la ricerca della felicità sarà un cammino lungo e periglioso. Comunque, questi personaggi, e anche gli altri minori, sullo sfondo, sono tutti molto ben caratterizzati e credibili. E le avventure, che li coinvolgeranno saranno numerose e talvolta mozzafiato. In conclusione non posso che consigliare questo romanzo a tutti gli amanti del genere sentimentale, delle descrizioni efficaci e delle storie travolgenti.

BIOGRAFIA dell'autrice:  LINDA BERTASI nasce nel 1978.
Appassionata di storia e letteratura inglese, collabora con blog letterari, case editrici e web-magazine in qualità di redattrice e articolista.
Gestisce personalmente  il suo blog ufficiale dove da ampio spazio agli emergenti con segnalazioni, interviste e recensioni GRATUITE.
Nel Gennaio 2010, pubblica il romance contemporaneo “Destino di un amore”, cui fa seguito nel Febbraio 2011 il paranormal-romance “Il rifugio – Un amore senza tempo”che le vale, nel 2012, la Medaglia d'Argento al XXIII Premio Letterario 'Valle Senio'.
Nel Maggio 2013, pubblica il romanzo storico sentimentale “Il profumo del sud” che le vale la qualifica con merito di 'Autore commendevole' al VII Premio Letterario Europeo 'Massa città fiabesca'.
Sempre nel 2013, ha curato diverse prefazioni e dall'ottobre 2014 è membro dell'associazione EWWA  in qualità di socia ordinaria.
Proprietaria di una piccola realtà commerciale nella provincia di Ferrara, vive assieme al marito e alla figlia.

 
BLOG UFFICIALE AUTRICE:  http://lindabertasi.blogspot.it/


Copyright Elena Genero Santoro Giugno 2015

sabato 6 giugno 2015

I colori del vuoto


Ho appena terminato di leggere “I colori del vuoto”, una raccolta di racconti editi da liberedizioni e scritti da autori d’eccezione: persone che sono state adottate, genitori biologici e genitori adottivi. Quel che ne esce è uno spaccato interessante che mostra il tema dell’adozione nelle sue diverse sfaccettature, dando voce a tutti i punti di vista. Prevalentemente parlano i figli adottivi, ma talvolta anche i genitori prendono la parola. I racconti sono molto diversi, ma hanno un denominatore comune: il dolore che accompagna i soggetti in causa per tutta la vita, il senso di vuoto e di perdita delle radici che non si colma mai.

Nell’immaginario collettivo c’è una visione assai bucolica e idealizzata dell’adozione. Uno pensa che negli orfanatrofi i bambini stiano tutto il giorno in paziente e adorante attesa di incontrare una famiglia di buon cuore.  Uno immagina anche che, quando ciò accade, il figlio adottivo scoppi di gratitudine verso i nuovi generosi genitori e vissero tutti felici e contenti fino alla fine dei loro giorni.

Ciò che emerge da questo libro è che la realtà delle adozioni è un mondo assai più complesso e meno stucchevole di quello che si vorrebbe credere. Il che non significa che l’adozione non sia una istituzione meravigliosa e talvolta indispensabile per dare una vita migliore e più opportunità a un minore che diversamente non ne avrebbe. Però non è il paradiso.

L’assioma di questo libro è che chiunque cresca in una famiglia non sua, (che ci sia arrivato in fasce o già grandicello e consapevole), non possa fare a meno di ricercare le proprie origini. L’assunto  è che è possibile amare una madre adottiva con tutto il cuore, ma è impossibile non sognare, desiderare, immaginare, idealizzare la madre biologica, la madre di pancia, la culla umana in cui si sono trascorsi i nove mesi della gestazione e talvolta anche qualche altro momento successivo. (Nel libro viene espresso prevalentemente il desiderio di incontrare la madre, i padri rimangono sullo sfondo e anche coloro che scrivono sono in prevalenza delle donne).

La madre adottiva può essere buona e paziente finché si vuole, ma ha pur sempre un viso diverso, un colore differente e soprattutto un altro odore. Quando poi il bambino adottato appartiene addirittura a un’altra etnia, perché magari proviene dall’altra parte del mondo, l’estraniamento  è totale. L’adottato non solo si sente diverso nella sua stessa famiglia, ma diverso pure nel suo paese, dove gli accade persino di subire episodi di razzismo. Quando poi, crescendo, questo figlio tenta di tornare alle sue origini, in Corea, in Cina, in India, capisce di non essere davvero coreano, cinese, indiano, perché di fatto è cresciuto altrove. Quindi trovare la propria radice è a maggior ragione complicato. (Dal racconto “Straniera a metà”).

Apro una parentesi: mio padre ha insegnato al liceo per quarant’anni e tra le centinaia o forse migliaia di alunni che ha avuto, c’erano anche dei figli adottivi, magari giunti in Italia con un’adozione internazionale. Ebbene, mio padre non mi ha mai descritto l’adozione come una situazione ottimale, vedeva un tipo di disagio ricorrente in quei ragazzi. In qualche caso è anche capitato che, se erano di origine straniera, compiuta la maggiore età sparissero in cerca delle loro origini, senza mai più mettere piede a scuola.

E che dire delle famiglie adottanti, delle madri di cuore? Non sempre tra figlio adottivo e madre adottiva sono rose e fiori. Il bambino che ha subito il trauma dell’abbandono è un bambino che ha assolutamente bisogno di un surplus d’amore per colmare la lacuna. È un infante che ripone molte aspettative nella famiglia che lo adotta, perché questa famiglia dovrà non solo essere normale, ma super. Al piccolo figlio adottivo non possono andare bene dei genitori qualunque, per quanto armati delle migliori intenzioni: ci vuole qualcuno con un quid in più. Succede però, talvolta e non sempre, che altrettanta aspettativa venga riposta dal genitore adottante verso il figlio adottivo. Accade anche che una donna scelga di adottare un bambino per colmare il proprio personale vuoto (dovuto alla sterilità), per appagare il proprio desiderio (o capriccio?) di avere un figlio. In questo caso è un disastro. Non lo dico io, lo spiega l’autrice del racconto “Le due madri”.

Infine, la madre biologica, la tanto vituperata figura della madre degenere che abbandona il figlio. Quello che di solito si omette è che quando madre e figlio vengono separati, il trauma vale per entrambi e non si risolve mai. Come madre io non riesco a immaginare un dolore più grande che vedermi strappare un figlio. Non riesco a figurarmi una donna che abbandona il proprio bambino senza una ragione valida, senza una disperazione ancora più grande. Dal libro si intuisce che in un passato non troppo lontano deve essere accaduto veramente di tutto, che spesso e volentieri le ragazze che restavano incinte fuori dal matrimonio venivano costrette dai parenti ad abbandonare il neonato per non macchiare l’onore della famiglia e che in qualche caso non era consentito loro di vedere il bambino neppure una volta prima di lasciarlo andare. Se poi ci si mettevano di mezzo le suore e gli istituti religiosi, con la loro omertà e i loro muri di gomma, diventava impossibile cambiare idea e tornare indietro. Dunque, le madri biologiche che fanno capolino nel libro sono spesso giovani plagiate dai genitori, talvolta costrette con l’inganno, schiacciate da una morale bigotta e troppo deboli per opporsi.

Questo nodo è tra quelli che mi recano maggiore struggimento: il momento del distacco della madre dal figlio. Nel racconto “Può una madre dimenticare suo figlio?”, c’è un passaggio molto simile a quello che ho trovato nel libro “La donna è un’isola” dell’islandese Auður Ava Ólafsdóttir. In “La donna è un’isola”, la protagonista è una sconclusionata trentenne appena lasciata dal marito che intraprende un viaggio per tutta l’Islanda insieme al figlio di quattro anni di una sua amica. Il viaggio è in fondo un percorso interiore e mentre lei affronta il suo malessere, si intuisce che a quindici anni aveva dato alla luce un bambino che era stato dato in adozione. Il neonato si avvinghia alla donna che lo ha appena partorito, non vorrebbe staccarsi per nessuna ragione, ma qualcuno arriva e lo porta via, lasciando nella puerpera un vuoto incolmabile. Dopo non è possibile proseguire con la propria vita come se nulla fosse stato.

Le storie narrate nella raccolta sono varie, in alcuni casi gli adottati riescono a ritrovare la famiglia d’origine, in altri casi non c’è il lieto fine, la figura sognata della madre naturale, sempre presente ma sconosciuta, rimane una chimera.

L’associazione FAEGN (Figli adottivi e genitori naturali) che ha patrocinato il libro si batte affinché la legge sia ulteriormente modificata e dia più possibilità ai figli adottivi di ritrovare le proprie origini, nella tutela dei diritti di tutti.

Io non posso che augurare loro di riuscirci.

Copyright Elena Genero Santoro Giugno 2015

giovedì 28 maggio 2015

Paula and me


Di notizie di m. ce ne sono tutti i giorni e la morte di Paula Cooper non è certo un evento che può interessare tutti, ma chi mi conosce sa che questo fatto mi sconvolge e mi tocca intimamente.

Ho seguito la  vicenda di Paula Cooper dall’inizio, ed io allora ero una ragazzina. Per lei si era mobilitato l’intero globo, dai gruppi religiosi a quelle laici, dal Papa a tutte le associazioni possibili contro la pena di morte e alla fine ce l’avevano fatta: Paula era stata condannata a sessant’anni di reclusione e poi, due anni fa, era stata rimessa in libertà per buona condotta.

Ma facciamo un passo indietro: quando Paula Cooper era stata messa in galera, io ero una bambina. Non sapevo neppure che la pena di morte nel mondo esistesse e nella mia santa ingenuità ero sicura che alla fine il giudice distratto che aveva condannato quell’adolescente a una fine tanto ingiusta si sarebbe deciso, alzandosi finalmente con il piede giusto, ad annullare la sentenza di morte.

Ignoravo, all’epoca, il lavoro non indifferente che invece aveva dovuto fare chi si era opposto in ogni modo a tale barbarie. Eppure quelle anime ispirate erano riuscite nel loro intento e nel frattempo io avevo capito: l’annullamento di una condanna a morte negli Stati Uniti non era la prassi, anzi, era l’eccezione. A cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo c’era ancora chi andava a morire per mano del boia in un paese teoricamente civilizzato. Mi era sembrato tutto talmente assurdo e inconcepibile da farmi scegliere di fare qualcosa. Era stato allora che avevo già deciso di ribellarmi personalmente a quel tipo di abominio e se successivamente, nel 2002, a ventisette anni, ho iniziato la corrispondenza con Martin Eddie Grossman è stato a causa di Paula Cooper. Quando ho preso su di me un pezzo di quella croce e ne ho fatta una causa mia, è stato in nome di Paula Cooper. E quando nel 2010 ho pianto tutte le lacrime che potevo piangere per la morte di Eddie per iniezione letale, ho ricordato che tutto era iniziato per la vicenda di Paula Cooper. Se ci ho scritto sopra addirittura un romanzo è perché speravo che al mondo ci fossero più Paule e meno Eddie.

Due anni fa Paula era stata liberata e io ero felice. Avevo ascoltato una sua intervista e mi si era allargato il cuore. Lei era per me l’esempio inconfutabile di un recupero pienamente avvenuto, l’emblema di una donna che, ricevuta una seconda possibilità, aveva cambiato la sua vita e ne aveva fatto un piccolo capolavoro, in smacco a quelli che credono che un assassino sia necessariamente un mostro e che negano la possibilità di riscatto a chi sbaglia.

Oggi scopro che Paula è morta. Suicida, pare, ed io sono distrutta. Non sono solo triste, sono anche arrabbiata, soprattutto se l’ipotesi di suicidio sarà confermata. Perché l’hai fatto, Paula? Proprio tu che hai lottato così a lungo per poter vivere? Perché hai tradito te stessa (e un po’ anche me)? È un gesto che fatico a comprendere in quanto compiuto da una donna che è sfuggita a una sorte tanto drammatica. Ha forse ragione Gramellini quando ipotizza che in fondo non ti sei mai perdonata? Oppure, semplicemente, quando tu sei trovata a vivere la vita vera, quella che hai sempre sognato, non sei riuscita a reggere e ti sei sentita talmente sola da non farcela? Pensavo a Primo Levi, sopravvissuto al campo di concentramento e morto anni dopo per sua stessa mano. Quando qualcuno ti ruba la vita, la morte ti resta dentro e non ti lascia libero, anche se la prigionia fisica è finalmente cessata, anche se gli aguzzini ormai se ne sono andati. Resta la mia amarezza, Paula. Spero che tu abbia trovato la pace che non ti è stata concessa finora. RIP.

Copyright Elena Genero Santoro Maggio 2105

venerdì 6 marzo 2015

Una modella "desigual"


Non so quanti di voi hanno notato la modella testimonial del marchio Desigual. Io ci ho fatto caso sfogliando una brochure con la collezione primavera estate 2015. La stessa modella, però, ho controllato, era già stata ingaggiata per lo meno per la stagione precedente. Comunque, la particolarità di questa ragazza, Chantelle Harlow, in arte Winnie Harlow, è che sulla sua pelle mora ci sono delle vistose ed estese macchie bianche: si tratta di  vitiligine, una malattia che porta alla depigmentazione dell’epidermide sulle gambe, sulle braccia e in viso, in particolare intorno alla bocca.  Pare che Desigual abbia optato per una tale scelta in quanto la sua politica aziendale è quella di dare spazio a tutto ciò che è “diverso” (si chiamano Desigual non a caso). Quindi anche una ragazza maculata, che da bambina soffriva dei più penosi complessi (la chiamavano mucca oppure zebra), può avere la sua parte di successo e anzi, non solo, può trasformare ciò che a prima vista appare un difetto in un pregio, può gloriarsi della sua unicità. Lo sforzo di Desigual è in questo senso encomiabile, evviva l’originalità, evviva anche l’esaltazione di una bellezza non stereotipata, non perfetta, non standard. Questo ci rende Desigual un’azienda indubbiamente più simpatica, e pensare che già prima mi piacevano un sacco i loro prodotti, le esplosioni di colore sui loro tessuti, l’accostamento mai pacchiano di tinte sempre accese, vivaci e allegre. Ogni borsetta è un’opera d’arte. Il problema, ma io non sono un’esperta di marketing, è che quando uno sul catalogo nota la modella non guarda più i vestiti. Però sono convinta che Desigual, da tale punto di vista commerciale, sappia quel che fa.
L’unico appunto che sento di muovere al marchio spagnolo è questo: Winnie Harlow ha in effetti un problema epidermico, ma a ben guardare rimane sempre una stanga alta due metri e magra come un chiodo. Quando Desigual, per esaltare la diversità, assolderà anche modelle sovrappeso, alte un metro e un tappo e con la cellulite, allora avremo davvero raggiunto l’obiettivo.

Copyright Elena Genero Santoro Marzo 2015

lunedì 8 dicembre 2014

La rondine e il suo cielo. Pino Mango, in memoriam


Chi mi conosce sa che una dozzina di anni fa ho avuto un periodo difficile ma che non ho mai smesso un solo giorno di cantare. Mi ero fatta regalare a Natale il karaoke Canta tu, me l’aveva regalato, paradossalmente, proprio la persona che mi stava mettendo in croce. Era liberatorio dar fiato alla mia depressione e una delle canzoni che mi venivano direi benino era “La rondine” di Mango. Rappresentava perfettamente il mio stato d’animo e forse era quella la ragione per cui la interpretavo meglio di altre. (“Nonostante tu sia la mia rondine andata via, stessa luna a metà, sei nel cielo sbagliato”).

Poi la vita è andata avanti e il karaoke – quel bel giocattolone dalla tecnologia mediocre che non valeva i soldi che era costato – di lì a breve era finito in cantina insieme ai brutti ricordi e a tutto ciò che potevo associare a quel periodo nero.

Finché ieri sera, insieme agli addobbi di Natale, non mi è venuto in mente di riportare il karaoke in superficie, strappandolo all’oscurità della cantina e del mio subconscio. Sono andata a riprenderlo non per me, ma pensando che i miei figli si sarebbero divertiti. Dopo tanto tempo, pregustando la gioia dei miei bimbi, non mi faceva più male ritrovarlo, né averci a che fare. Non mi faceva più male riascoltare quelle canzoni. Le mie domande: Funzionerà ancora? E: Piacerà ai bambini? Hanno trovato entrambe risposta affermativa.

Stamattina, cioè poche ore dopo aver fatto pace con i miei ricordi, ho appreso del decesso improvviso di Mango, che con le sue note mi aveva inconsapevolmente accompagnato in quei mesi orrendi, dando loro un senso. Dire che mi è dispiaciuto non rende l’idea. Ma ora sono pronta per dedicargli “La rondine”, che lo accompagni nel suo viaggio.

Ciao Pino, che tu possa trovare la pace nel cielo giusto.
 
Copyright Dicembre 2014, Elena Genero Santoro

sabato 8 novembre 2014

Recensione: Le inAmabili di Sheyla Bobba

Titolo: Le inAmabili
Autrice: Sheyla Bobba
Edizioni Il Ciliegio, 2012

Questo libro (bello, crudo, consigliatissimo) è una raccolta di racconti solo in apparenza. In realtà è un romanzo composto da più frammenti che pungono e fanno male come scheggie di vetro. E' la voce di più donne, donne diverse, ma ugualmente complesse che raccontano in prima persona esperienze dolorose, talvolta squallide, ma tutte crudelmente realistiche. Queste donne talvolta hanno subito una decisione altrui, talvolta invece hanno imposto la loro volontà e hanno compiuto una scelta difficile che le ha condotte alla libertà di cui non potevano fare a meno ("le donne di carattere non hanno un buon carattere", si dice). In quasi tutti i casi il prezzo è la perdita dell'amore, della condivisione della propria vita con qualcuno.
In queste pagine Sheyla Bobba ci conduce con mano sicura attraverso la complessità della psiche e della sfera intima femminile, che talvolta appare un limite tanto invalidante da condurre alla solitudine. Molte donne potranno riconoscersi nella difficoltà che le sue protagoniste hanno nel trovare una controparte con cui dialogare, nel rendersi desiderabili. Perché l'intelligenza, l'autodeterminazione, la consapevolezza di sé possono rendere una donna inAmabile.


Copyright Elena G. Santoro Novembre 2014

venerdì 17 ottobre 2014

I Patrick Sartori(s) e il quesito: può un malato cronico sposarsi ed essere felice?


Succede a volte che le persone abbiano un’affinità tra loro, ma anche, cosa più insolita a dirsi, che ce l’abbiano i libri.

Tutto è cominciato quando Argeta Brozi, l’instancabile editrice di Butterfly, casa da lei stessa fondata, per fare propaganda ad uno dei suoi libri ha postato su Facebook la seguente domanda:

Una persona mentalmente malata ha diritto (e possibilità) di trovare l’amore?

Il quesito su di me ha fatto centro, perché è un tema a cui sono sensibile e che ho trattato pure io, nel mio primo romanzo “Perché ne sono innamorata”.

E così ho acquistato il romanzo fulcro della  discussione sul post, scritto da un’autrice giovanissima (Valentina Bazzani), dal titolo “L’amore non si nega a nessuno”.

Il romanzo è molto breve, scritto bene e in modo scorrevole, si legge tutto d’un fiato in poche ore. Per me è stato una rivelazione, perché man mano che mi addentravo tra le pagine trovavo delle affinità con il mio romanzo. Il protagonista maschile, bello e affascinante, si chiama Patrick, come pure il mio protagonista, e ha un padre imprenditore parecchio ingombrante da cui cerca in vario modo di affrancarsi, fino a dover compiere scelte estreme.  E già queste erano somiglianze abbastanza simpatiche. Ma quando ho scoperto che i nostri Patrick avevano in comune pure il cognome (Sartori, il suo, Sartoris il mio), sono caduta letteralmente dalla sedia.

(Per i malpensanti: no, al plagio non penso nemmeno, se uno plagia non è così fesso da mantenere lo stesso identico nome, insomma). 

E queste sono le analogie. Poi cominciano le differenze, e anche queste sono sostanziali.

Nel caso del libro di Valentina Bazzani, il malato non è Patrick, ma Ellen, la ragazza di cui lui si innamora, che soffre della malattia bipolare.

Nel mio caso il malato "ufficiale" è proprio Patrick, il quale però, a differenza di Ellen, soffre di una malattia fisica, che per quanto invalidante, per quanto possa incidere sul suo umore, non lo conduce mai alla psicosi (al limite lo rende un po' ansioso e nevrotico).

Chi vuole indagare la malattia mentale, in “Perché ne sono innamorata” deve invece prestare attenzione al personaggio di Giulio, che è, come verrà appurato in capitoli successivi della saga, un borderline con un piede già avviato verso la psicopatia, cosa che lo conduce a diventare aggressivo e violento (il che lo fa rientrare ancora in una terza categoria, a parte).

E quindi qual è la morale? Un malato ha diritto a un matrimonio, a un compagno, alla felicità? Probabilmente dipende dal tipo di malattia e dalla sua gravità. Dipende anche se si cura. Generalizzare è impossibile e non ha alcun senso. Quindi non c'è una risposta, ma solo qualche spunto di riflessione, almeno per me che scrivo.

Le conclusioni a cui la Bazzani ed io giungiamo nei nostri romanzi alla fine sono opposte, o comunque non sovrapponibili. Lei nel suo libro, molto dolce e tenero, non esclude questa possibilità, nonostante la fatica e l’impegno che il partner “sano” è costretto a metterci. E se poi così non accade (ma magari accade!), ci si può sempre consolare pensando di aver letto una bella "fiaba", che se non altro ci ha fatto deliziosamente sognare, e lo ha fatto più che degnamente, per alcune ore. D'altronde lo stesso assunto della Bazzani viene supportato  dal libro autobiografico "Una vita bipolare" di Marya Hornbacher, uno dei romanzi più struggenti che mi sia mai capitato di incrociare, che mi ha portato più volte alle lacrime, come difficilmente mi accade. Marya Hornbacher ha una vita talmente complicata che è difficile immaginarselo, eppure ha trovato un marito che la ama sinceramente. Mi risulta che sia ancora sposata.
Anche John Nash, schizofrenico protagonista del film "A beautiful mind" (tratto da storia vera), vive una vita  serena e sentimentalmente appagata quando inizia a controllare il suo problema (lui lo fa addirittura senza medicine!).

Di fatto,  negli  ultimi anni mi è capitato di conoscere, a distanza di tempo, un paio di persone, un LUI e poi una LEI, che erano un po' "strani", un po' scollati con la realtà, che vivevano faticosamente nel loro mondo reputando gli atti altrui come trame ordite ai loro danni e che, pur non facendo del male a nessuno (se non gravare il prossimo col loro cattivo umore nella fase down), a tutt'oggi - sono quarantenni - non hanno mai avuto una relazione stabile. Attualmente ancora non so di preciso quale sia la diagnosi su questi due individui, se ce n'è una (propendo per la schizofrenia nel caso della LEI, ma io non sono una specialista e non posso che azzardare), ma di sicuro i due personaggi in questione rientrano nella categoria dei disturbati e, gira e rigira, sono soli. Sono soli e anche poco inseriti nel tessuto sociale, anche se entrambi lavorano. Alternano periodi di apparente normalità, o comunque, di relativa quiete, ad altri in cui affermano cose che non stanno né in cielo né in terra, lanciando accuse improponibili per la loro assurdità. Farebbero ridere se non fosse per la tristezza della situazione. La conseguenza è che gli amici mal li sopportano e i colleghi d'ufficio non ci vogliono aver niente sta spartire. Perché se è pur vero che l'amore non si nega a nessuno, e che essere amati è un diritto di tutti, è anche vero che una persona che nella vita quotidiana vede complotti ovunque e che quando ti racconta le sue ansie lo fa in modo talmente confusionario che non capisci neppure di chi stia parlando, è pesante da sopportare e ben difficile da gestire. La vorresti aiutare, come amico almeno, ma vedi che non ci riesci. Figuriamoci come innamorato. Purtroppo, anche volendo amare una persona del genere, non siamo tutti dei Patrick Sartori.
Non ho certezza che i miei due conoscenti fossero/siano in cura o meno, (la LEI non lo è, non si cura e non riconosce il suo problema, e temo sia questo il motivo per cui è ancora sola), e forse è anche questa la differenza con la Ellen del libro della Bazzani, che invece è sotto controllo. Ellen si cura e quando lo fa è stabile, quindi conduce una vita normale. E magari anche la patologia è diversa, quindi non è corretto fare di tutta l'erba un fascio. Però mi ritrovo nella dinamica della loro malattia: latente, per un po', e poi, per qualche motivo (cambiamento del clima, sospensione delle cure), esplosiva ad un certo punto.

Quindi io, che sono un po’ più vecchia della Bazzani, e decisamente più cinica, oppure semplicemente segnata da esperienze diverse, credo senza ombra di dubbio che con un malato “fisico” si possa avere un rapporto, mentre con un malato “mentale” no, SE la malattia mentale implica costante impossibilità di dialogo e di ragionamento, come capita con il mio LUI e la mia LEI e a tutti quelli che non riconoscono di avere un problema e non lo trattano.

Peggio ancora se, oltre all'impossibilità di dialogo, conduce in una spirale perversa un partner che per sopportare gli umori alterni del compagno instabile accetta persino la violenza, fisica e psicologica. Un borderline al pari del mio Giulio è questo, per lo meno in certi casi. (La mia tesi è a mia volta supportata da uno dei romanzi di Carofiglio, "Ad occhi chiusi". Il borderline che intendo io, come l'ho conosciuto io, è esattamente del tipo che lui descrive). Si può essere pietosi con un borderline-quasi psicopatico, si può provare umana comprensione, ma di qui all’amarlo tutta la vita ce ne passa e neppure è possibile.

La malattia di Ellen, la protagonista femminile di “L’amore non si nega a nessuno”, come dicevo, esplode all’improvviso e senza un perché, e quando lo fa è devastante. Ellen non è in sè, Ellen non è a contatto con la realtà, Ellen non è "se stessa", durante le sue crisi. Anche la malattia di Patrick rimane latente finché non comporta un guaio talmente grosso da destabilizzare tutto quanto. Invece Giulio non è mai diverso da se stesso. Il problema di Giulio è che la sua personalità deviata, può solo, al limite, degenerare, diventare incontenibile in certi momenti, in cui lui perde il controllo. Tuttavia,  siccome lui, per la sua sindrome, non soffre affatto di allucinazioni, ed ha sì un rapporto contorto con la realtà,  ma non del tutto inconsapevole (il dubbio è sempre: quanto il borderline è conscio delle sue azioni? o forse, quanto è conscio della gravità delle sue azioni?), qualcuno direbbe, nonostante le definizioni psichiatriche, che la sua non è nemmeno una malattia, ma semplicemente crudeltà allo stato puro, e la crudeltà non può mai essere amata.
 
 
Copyright Elena Genero Santoro Ottobre 2014

 

Un errore di gioventù

Un errore di gioventù
Futura è incinta per la seconda volta e a Patrick sembra che il loro mondo sia perfetto, ma una notizia dal passato potrebbe scombinare tutto. Patrick infatti viene contattato da una sua ex, Arlene, che gli confessa di avere una figlia quasi adolescente, che potrebbe essere sua. Lui però non ha il coraggio di rivelarlo alla moglie.

L'occasione di una vita

L'occasione di una vita
Tre donne, tre occasioni per cambiare la propria vita. A Londra Futura rimane inaspettatamente incinta, ma Patrick inizialmente non è disposto ad accettare l'idea di diventare padre. Tra i due conviventi scende a lungo il gelo, finché il ragazzo, intenerito dall'ecografia del piccolo, decide di rivedere le proprie posizioni. Non fa in tempo però a manifestare le sue intenzioni che Futura perde il bambino e in conseguenza di ciò decide di allontanarsi, non essendosi sentita sufficientemente amata e capita durante la pur breve gestazione. A Torino Massimo e Ljuda, sposati e con due bambini, si dividono tra lavori part-time e la gestione della Casa di Accoglienza, struttura che si occupa di ospitare donne vittime di violenza che tentano di rimettere insiemi i cocci della loro vita. Ljuda però non è felice, le pesa la perenne carenza di soldi e decide, senza il benestare del marito, di partecipare al Reality più famoso d'Italia, dove è stata scritturata come concorrente, per dare una svolta alla sua esistenza.

Perché ne sono innamorata

Perché ne sono innamorata
Quanti modi ci sono per innamorarsi? E quanti per esprimere l’amore? Come inizia una storia duratura? La sognatrice Manuela, l’introversa e concreta Futura, la tenace Ljuda e la rassegnata Martina sono alle prese, rispettivamente, ma non sempre biunivocamente, con un promesso sposo altrui e inaffidabile, un ragazzo affascinante ma affetto da una patologia genetica, un seminarista e un fidanzato arrogante e violento. Impareranno, a loro spese, a discernere le relazioni sane da quelle malate.

Lettori fissi

Informazioni personali

La mia foto
Sono nata a Torino nel 1975 dove ancora risiedo e lavoro. Ho pubblicato qualche romanzo e ogni tanto condivido sul blog i miei pensieri.