Ho appena terminato di leggere “I colori del vuoto”, una
raccolta di racconti editi da liberedizioni e scritti da autori d’eccezione: persone
che sono state adottate, genitori biologici e genitori adottivi. Quel che ne
esce è uno spaccato interessante che mostra il tema dell’adozione nelle sue
diverse sfaccettature, dando voce a tutti i punti di vista. Prevalentemente parlano
i figli adottivi, ma talvolta anche i genitori prendono la parola. I racconti
sono molto diversi, ma hanno un denominatore comune: il dolore che accompagna i
soggetti in causa per tutta la vita, il senso di vuoto e di perdita delle
radici che non si colma mai.
Nell’immaginario collettivo c’è una visione assai bucolica e
idealizzata dell’adozione. Uno pensa che negli orfanatrofi i bambini stiano
tutto il giorno in paziente e adorante attesa di incontrare una famiglia di
buon cuore. Uno immagina anche che, quando
ciò accade, il figlio adottivo scoppi di gratitudine verso i nuovi generosi
genitori e vissero tutti felici e contenti fino alla fine dei loro giorni.
Ciò che emerge da questo libro è che la realtà delle
adozioni è un mondo assai più complesso e meno stucchevole di quello che si
vorrebbe credere. Il che non significa che l’adozione non sia una istituzione
meravigliosa e talvolta indispensabile per dare una vita migliore e più
opportunità a un minore che diversamente non ne avrebbe. Però non è il
paradiso.
L’assioma di questo libro è che chiunque cresca in una
famiglia non sua, (che ci sia arrivato in fasce o già grandicello e
consapevole), non possa fare a meno di ricercare le proprie origini. L’assunto è che è possibile amare una madre adottiva
con tutto il cuore, ma è impossibile non sognare, desiderare, immaginare,
idealizzare la madre biologica, la madre di pancia, la culla umana in cui si
sono trascorsi i nove mesi della gestazione e talvolta anche qualche altro
momento successivo. (Nel libro viene espresso prevalentemente il desiderio di
incontrare la madre, i padri rimangono sullo sfondo e anche coloro che scrivono
sono in prevalenza delle donne).
La madre adottiva può essere buona e paziente finché si
vuole, ma ha pur sempre un viso diverso, un colore differente e soprattutto un
altro odore. Quando poi il bambino adottato appartiene addirittura a un’altra
etnia, perché magari proviene dall’altra parte del mondo, l’estraniamento è totale. L’adottato non solo si sente diverso
nella sua stessa famiglia, ma diverso pure nel suo paese, dove gli accade
persino di subire episodi di razzismo. Quando poi, crescendo, questo figlio tenta
di tornare alle sue origini, in Corea, in Cina, in India, capisce di non essere
davvero coreano, cinese, indiano, perché di fatto è cresciuto altrove. Quindi
trovare la propria radice è a maggior ragione complicato. (Dal racconto “Straniera
a metà”).
Apro una parentesi: mio padre ha insegnato al liceo per
quarant’anni e tra le centinaia o forse migliaia di alunni che ha avuto, c’erano
anche dei figli adottivi, magari giunti in Italia con un’adozione
internazionale. Ebbene, mio padre non mi ha mai descritto l’adozione come una
situazione ottimale, vedeva un tipo di disagio ricorrente in quei ragazzi. In
qualche caso è anche capitato che, se erano di origine straniera, compiuta la
maggiore età sparissero in cerca delle loro origini, senza mai più mettere
piede a scuola.
E che dire delle famiglie adottanti, delle madri di cuore?
Non sempre tra figlio adottivo e madre adottiva sono rose e fiori. Il bambino
che ha subito il trauma dell’abbandono è un bambino che ha assolutamente
bisogno di un surplus d’amore per colmare la lacuna. È un infante che ripone
molte aspettative nella famiglia che lo adotta, perché questa famiglia dovrà
non solo essere normale, ma super. Al piccolo figlio adottivo non possono
andare bene dei genitori qualunque, per quanto armati delle migliori
intenzioni: ci vuole qualcuno con un quid in più. Succede però, talvolta e non
sempre, che altrettanta aspettativa venga riposta dal genitore adottante verso
il figlio adottivo. Accade anche che una donna scelga di adottare un bambino per
colmare il proprio personale vuoto (dovuto alla sterilità), per appagare il
proprio desiderio (o capriccio?) di avere un figlio. In questo caso è un disastro.
Non lo dico io, lo spiega l’autrice del racconto “Le due madri”.
Infine, la madre biologica, la tanto vituperata figura della
madre degenere che abbandona il figlio. Quello che di solito si omette è che
quando madre e figlio vengono separati, il trauma vale per entrambi e non si
risolve mai. Come madre io non riesco a immaginare un dolore più grande che
vedermi strappare un figlio. Non riesco a figurarmi una donna che abbandona il
proprio bambino senza una ragione valida, senza una disperazione ancora più
grande. Dal libro si intuisce che in un passato non troppo lontano deve essere
accaduto veramente di tutto, che spesso e volentieri le ragazze che restavano
incinte fuori dal matrimonio venivano costrette dai parenti ad abbandonare il
neonato per non macchiare l’onore della famiglia e che in qualche caso non era
consentito loro di vedere il bambino neppure una volta prima di lasciarlo andare.
Se poi ci si mettevano di mezzo le suore e gli istituti religiosi, con la loro
omertà e i loro muri di gomma, diventava impossibile cambiare idea e tornare
indietro. Dunque, le madri biologiche che fanno capolino nel libro sono spesso giovani
plagiate dai genitori, talvolta costrette con l’inganno, schiacciate da una
morale bigotta e troppo deboli per opporsi.
Questo nodo è tra quelli che mi recano maggiore struggimento:
il momento del distacco della madre dal figlio. Nel racconto “Può una madre
dimenticare suo figlio?”, c’è un passaggio molto simile a quello che ho trovato
nel libro “La donna è un’isola” dell’islandese Auður Ava Ólafsdóttir. In “La
donna è un’isola”, la protagonista è una sconclusionata trentenne appena
lasciata dal marito che intraprende un viaggio per tutta l’Islanda insieme al
figlio di quattro anni di una sua amica. Il viaggio è in fondo un percorso
interiore e mentre lei affronta il suo malessere, si intuisce che a quindici
anni aveva dato alla luce un bambino che era stato dato in adozione. Il neonato
si avvinghia alla donna che lo ha appena partorito, non vorrebbe staccarsi per
nessuna ragione, ma qualcuno arriva e lo porta via, lasciando nella puerpera un
vuoto incolmabile. Dopo non è possibile proseguire con la propria vita come se
nulla fosse stato.
Le storie narrate nella raccolta sono varie, in alcuni casi
gli adottati riescono a ritrovare la famiglia d’origine, in altri casi non c’è
il lieto fine, la figura sognata della madre naturale, sempre presente ma
sconosciuta, rimane una chimera.
L’associazione FAEGN (Figli adottivi e genitori naturali) che
ha patrocinato il libro si batte affinché la legge sia ulteriormente modificata
e dia più possibilità ai figli adottivi di ritrovare le proprie origini, nella
tutela dei diritti di tutti.
Io non posso che augurare loro di riuscirci.
Copyright Elena Genero Santoro Giugno 2015
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