mercoledì 30 maggio 2012

La ciotola aziendale

L’anno scorso, nel nostro ufficio, è venuto a lavorare un neolaureato desideroso di imparare. Era un giovanotto dinamico, brillante e promettente, ed essendo così dinamico, brillante e promettente, in capo a un anno ha subito trovato un altro impiego molto meglio retribuito. Giustamente.

Ad ogni modo, lui mi scrive, di tanto in tanto. Mi spiega com’è costituito l’ufficio nuovo e mi racconta la difficoltà di imparare il nuovo mestiere. Nel complesso gli piace, anche se, ovviamente, si tratta di un mondo tutto da scoprire e l’ansia di non essere sempre all’altezza, almeno nell’immediato, un po’ lo rode.

C’era un solo dettaglio che il nostro eroe rimpiangeva della vecchia azienda: la ciotola dell’insalata in mensa. In pratica ha lasciato un ricco e lauto piatto di verdure fresche per una ciotolina di dimensioni minuscole, microscopiche. Un unico neo nella gloriosa ascesa, una sola pecca nella nuova azienda fantastica e accattivante che lo ha accolto a braccia aperte.

Ma ho scritto “c’era”, al passato, a ragion veduta. Nel frattempo si è verificato un allineamento dello standard.

No, non hanno ingrandito la sua ciotola. Hanno rimpicciolito, non di poco, la nostra. Lunedì scorso all’ora di pranzo, et voilà, la sorpresa amara quanto la cicoria, poca, che ci stava dentro.

Ho subito informato il nostro ex collega della novità, almeno non rimpiangerà proprio più nulla. Perché se qua dentro dobbiamo modificare qualcosa per renderci conformi con le altre realtà…

E, come ho scritto pure a lui: “Vorrei dire che sputo nel piatto in cui mangio, ma è diventato così piccolo che temo di non riuscire a centrarlo, e non è (solo) una metafora”.

martedì 15 maggio 2012

Pollice nero, nerissimo


Per la festa della mamma, domenica, mio suocero, volenteroso, mi ha regalato una composizione di piantine di gusti: un origano, una melissa e un timo al limone, da tenere sul balcone.

Poveretto, lui non perde la speranza, ma non riesco a fargli capire che in capo a una settimana, massimo due, le sue tenere piantine saranno belle che morte.

Mio suocero non ha giardino, ma sul suo balcone ha veramente di tutto: ogni genere di esemplare della flora nostrana lui ce l’ha. Dategli un bulbo e vi tirerà su la foresta amazzonica.

Se a me regalano un vegetale qualunque, invece, è certo che farà un’orrenda fine.

Non posso dire che sia un difetto genetico, il mio. Mia nonna era una contadina che ha sempre tenuto un orto meraviglioso, e mio padre ha continuato e continua gloriosamente la tradizione. Io invece, pecoraccia nera della famiglia, vanto una serie ormai poderosa di fallimenti agricoli di genere vario.

Il mio esordio a tre anni quando, tra le urla della mia suddetta nonna, strappai tutti i finocchi piantati nel suo favoloso orto.

All’attivo vanto una serie di piantine da balcone accoppate nel giro di breve (i nomi non li ricordo, ma erano tante e di tutte le specie). Nella top ten una meravigliosa azalea rossa, uccisa una decina di anni fa in tempo record. Il mio traguardo più recente coinvolge una costosissima orchidea (Oddio, ma perché buttate tutti questi soldi con me?), salvata in extremis da una mia amica, che ora me la vorrebbe restituire, ma io mi oppongo strenuamente, per il bene del povero esemplare.

E dire che sono circondata da persone che curano le piante come fossero figlie. Le mie tre colleghe, per esempio, sono tutte molto impegnate in tutto ciò che è giardino. Sulle loro scrivanie crescono rigogliose delle creature verdi di tutto rispetto. Sulla mia scrivania il deserto. Per un po’ ho tenuto una composizione di fiori finti, poi era troppo deprimente. E dove le mie colleghe non arrivano, ci pensa il vicino d’ufficio, un signore molto simpatico che sa tutto, ma veramente tutto, di tre argomenti: gli elastomeri, gli insetti, e la flora di qualsivoglia natura. (Uno di quelli che se ti invita a casa sua per mostrarti le farfalle, ti mostra le farfalle).

Con me, nulla da fare. Proprio non mi entra in testa. Eppure il verde mi piace. Io amo la natura, ma non fatemela gestire.

Tuttavia, ogni regola ha le sue eccezioni. Il mio pollice nero nulla ha potuto contro tre fedelissime che nonostante le mie cure riescono a sopravvivermi ormai da anni (per cui, se moriranno, potrò dire che sarà stata morte naturale):

1.       Un filodendro ricevuto dai colleghi per il mio matrimonio. (Sarà simbolo di un matrimonio che funziona?)

2.       Un cactus spinoso e brutto come la fame regalatomi dal mio ex (anche qui mi domando se l’inconscio c’entri qualcosa, se qualcuno ha qualche teoria psicanalitica si faccia avanti).

3.       Una umile pianta di MISERIA, che in questi tempi grami è l’emblema di tutto. L’avevo vinta ad un banco di beneficenza al mare, e, lasciando l’albergo, me la stavo scordano. Tre paesi oltre, ho urlato a mio marito: - Ferma la macchina! Torniamo indietro! Ho dimenticato la pianta!

Quella deve averlo capito, sentito a modo suo, e non mi ha più mollata. Ora la mia MISERIA cresce rigogliosa sul mio davanzale. Sta bene. Ogni tanto la poto un po’.

martedì 1 maggio 2012

Primo Maggio Precario


Quest’anno, per festeggiare il primo maggio, avevo in mente di dedicare un pezzo alla deprimente situazione lavorativa in Italia, argomento  abusato, in verità, di questi tempi. Volevo puntare il dito contro la mentalità sempre più dilagante che il lavoro bisogna meritarselo e che pur di portare a casa due soldi si deve sottostare a qualunque tipo di sopruso lesivo della dignità umana. Ciò che trovo deprimente, anzi, davvero osceno, è che nonostante sia evidente (ai miei occhi, almeno) che le voragini nel bilancio create da mafia, spese della casta, spese militari e, soprattutto, dalla spirale posta in essere dall’implosione del mercato finanziario, non saranno mai sanabili raschiando il fondo del barile con tagli sulla sanità e sulle pensioni, la gente non si ribella. Ci siamo quasi convinti che siamo tenuti tutti a sacrificarci per la causa della crisi, ma non è così, e certi discorsi non mi piacciono. Io ho sempre pagato le tasse, e mantenuto uno stile di vita sobrio, per cui non mi sento in colpa se l’Italia va a pallini e non riesco ad autoflagellarmi allegramente pensando che sia giusto degradare la vita lavorativa (mia e di tutti gli altri), e accettare qualunque condizione perché è già grazie se ci fanno ancora lavorare. Ma come tutti cerco di stare a galla, per cui mi adeguo e osservo con sconforto e solidarietà tutti i commercianti che per santificare la festa del lavoro oggi tengono aperto.

Così, per festeggiare degnamente questo giorno, e qualcuno mi spiegherà che cosa c’è da festeggiare quest’anno, ho letto un libro appena uscito in libreria, dal titolo “Aria Precaria”, di Sara Root. Si tratta di un romanzo autobiografico che racconta le peripezie tragicomiche di una ragazza alla soglia dei trent’anni la quale zompa da uno stage all’altro, da un incarico deprimente a una proposta di lavoro indecente, in un’atmosfera che ha quasi del surreale e a tratti sembra persino incredibile.

L’autrice ha una lievità nel pennellare con poche parole semplici le situazioni complesse, riesce a dire tutto senza essere ridondante, e questa è sicuramente una dote.  Nonostante l’ironia con cui scrive, e che indubbiamente caratterizza il suo stile, però, il libro non fa sganasciare dal ridere, e non lo definirei “da ombrellone”.  È invece un fantastico libro di denuncia, nonostante le mentite spoglie di libro leggero. In certi passaggi, è persino angosciante, è ben più tragico che comico, per ciò che descrive, nonostante lo stile.

Certo il mondo in cui la protagonista si è imbattuta può avere del surreale, ma purtroppo si tratta della nuda realtà. Forse la differenza tra lei ed altre persone è che nel suo essere una ragazza “tutta d’un pezzo”, con dei principi e un’integrità, e soprattutto una dignità, ha mantenuto a lungo la capacità di scandalizzarsi per tutto ciò che le accadeva. Altre persone, al contrario, se la sarebbero fatta passare senza avere, come lei, l’abilità di leggere, nella stessa sequenza allucinata di eventi umilianti e deprimenti, un chiaro segnale di schizofrenia della società profondamente ingiusta e insensata in cui viviamo e che lei descrive molto bene.

Comunque, giudicando che la nostra società ha un rapporto deviato con l’idea del lavoro, non ho difficoltà a credere a tutto ciò che l’autrice ha scritto e ad augurare ad “Aria Precaria” di diventare un caso editoriale.

Leggetelo. Per festeggiare.

lunedì 23 aprile 2012

Retromarcia sui pannolini lavabili

Non pensavo che l'avrei mai detto, eppure i pannolini lavabili per bambini con me hanno chiuso. Mi ero lanciata in questa impresa convinta e motivata, per sfruttare appieno due poderosi vantaggi che questa soluzione garantisce:
1. Il costo: tolto l'investimento iniziale, non ci sarebbero state altre spese
2. La riduzione dei rifiuti: e diamo una mano anche all'ambiente.
Mi spiace per il mio portafogli e mi spiace pure per l'ambiente, ma con la pelle di mio figlio non ci gioco.
Premetto che la mia rinuncia non è dovuta al fatto che i pannolini lavabili sono effettivamente più impegnativi di quelli usa e getta: ficcarli in lavatrice al momento debito non mi è mai pesato. Per la causa avrei fatto questo ed altro.
La mia retromarcia nasce dal fatto che, sarà un caso, nei periodi in cui ho maggiormente utilizzato i lavabili, mio figlio si è preso prima un bel fungo sui genitali, poi, successivamente, un'infezione delle vie urinarie con tanto di sanguinamento (e giù di antibiotico). Ripeto, sarà un caso.
Però, pensandoci, forse non lo è.

Il produttore di quei pannolini raccomanda due cose:
1. Non lavare a più di 30 gradi, altrimenti l'imbottitura si rovina.
2. Eventualmente utilizzare il Napisan, ma anche no, perché tanto l'urina è sterile.
L'urina forse, le feci no di sicuro, e nonostante la visione bucolica che il produttore dà del suo pannolino (gli escrementi in teoria dovrebbero rimanere confinati al rivestimento di carta), l'imbottitura lavabile si imbratta eccome. E pure il guscio esterno, che deve essere trattato solo a mano. E mio figlio rimane, anche per ore, nell'umido sporco (e sottolineo umido, perché i cosiddetti sono per giunta poco traspiranti).
Dunque, e mi scuso per essere andata così nel dettaglio descrittivo, la mia conclusione è che i pannolini lavabili, allo stato delle cose, non sono igienici per nulla.
Essendomi attenuta alle indicazioni del produttore per il lavaggio, mio figlio ci ha rimesso in salute.
Quindi basta. Anche se ancora non avevo neppure ammortizzato l'investimento iniziale: ci siamo fermati a poco più che un terzo della spesa.

Conclusione? Viva i tedeschi. Loro producono pannolini biodegradabili al 70% a prezzi ridicoli. Per la prima figlia li ordinavo su internet a pacchi di 150 alla volta. Ora vado a rispolverare quel link...

sabato 14 aprile 2012

Gravidanza italiana


Che l’Italia odi le famiglie è evidente. Le nascite non vengono incentivate manco per niente e non si fa nulla per agevolare chi manifesta questo assurdo desiderio di procreare. Come se uno facesse i figli per capriccio. Come se i bambini di oggi non fossero le risorse di domani.

Come madre me ne accorgo e mi viene l’orticaria all’idea.

Ma anche la gravidanza non viene tutelata a dovere, secondo me. O meglio, non viene rispettata. Non solo per quanto riguarda il posto di lavoro, ma in generale.

Le donne incinte devono mettersi in testa di dovere essere produttive come le donne non incinte. Mica che la società ci può perdere, no?  

Il messaggio che viene fatto passare è: “La gravidanza è uno stato fisiologico… “, dunque tutto come prima.

Beh. La gravidanza è sì uno stato fisiologico, ma completamente alterato, che chiunque dovrebbe gestirsi come si sente. Lavorando, se vuole e sta bene, o mettendosi a letto, se non ce la fa.

Invece niente. Nessuno sconto. Durante la mia prima gestazione ho avuto un tale senso di colpa per non riuscire a fare tutto bene anche al lavoro che alla fine ho avuto conseguenze che potevano essere gravi. Scema io.  Al secondo giro me la sono presa comoda ed è andato tutto meglio. Per fortuna ho potuto permettermelo e di ciò ringrazio.

Eppure, dicevo, non ci sono sconti.

Sui pullman le donne incinte vengono fatte alzare, ormai. Sia dai delinquenti, che dagli anziani. Il che non è normale, ma capita.

Alle casse dei supermercati, la gravidanza non dà più diritto alla priorità. E che cavolo, provate voi a stare in piedi con sto pancione. Non è che andare a comprare carciofi sia propriamente una scelta, uno svago. Bisogna pur mangiare, no? Ma al momento di pagare, in fila come tutti gli altri.

Nelle ASL poi siamo arrivati alla follia. A Moncalieri per fare gli esami del sangue si sta in coda per ore. “La facciamo passare per prima solo se sta male”. Certo, perché se sto male, per festeggiare, mi faccio togliere ancora un litro di sangue. Vengo un altro giorno, grazie.

A Santena, dove c’è una succursale di ASL piccina picciò, aperta solo tre giorni a settimana, con un unico sportello, a quel punto accalcatissimo, la priorità c’è! Col trucco, però. Le donne incinte e diabetici passano per primi col numero prioritario, solo se si per primi presentano esattamente tra le 7,30  e le 7,45 del mattino. Dopo le 7,45 il biglietto prioritario viene tolto. P.S. Lo sportello apre alle 7,30, ma dalle 6,00 ci sono già file di anziani scalpitanti pronti ad arraffare il numero.

E nonostante ciò, gli anziani non prioritari scalpitano. Allargano le braccia dicendo con rassegnazione: “Eh, dobbiamo dare la priorità”…. (ma se potessimo, non lo faremmo mai.)

L’apoteosi l’abbiamo toccata al momento della curva glicemica. Per i non esperti la curva glicemica è un esame che a metà gravidanza è ormai una prassi, ed è rognosissimo. Ti fanno tre prelievi: il primo a digiuno. Poi mandano il campione ad analizzare. Se, dopo un’ora, l’esito che torna non evidenzia già un problema (e non si sa che cosa augurarsi) ti fanno bere un beverone di glucosio nauseante, quindi, dopo un’ora il secondo prelievo e dopo un’ulteriore ora il terzo. Il tutto senza poter mangiare né bere. Okay, s’ha da fare e si fa. E si fa all’ospedale direttamente, al centro prelievi, perché nelle ASL non lo possono gestire. Benissimo.

Arrivo per tempo e prendo il numero. Dopo di me, molti altri, lì per i più svariati motivi. Ma il numero serve a poco. Passano prima le priorità.

Subito ci sono i bambini. Per carità, vuoi mica fare aspettare i bambini? No, certo.  Poi quelli che devono essere ricoverati. Ci mancherebbe. Possono attendere mezz’ora in più? Ovviamente no.  E poi? Ste donne incinte le facciamo passare? No, prima i tamponi uretrali. Uomini fatti e finiti, con la panza piena, che ci sono passati legalmente davanti.  Ho anche litigato con uno che se n’è fregato del numero e di tutto, ma c’è stato poco da fare. Maledetto. Spero almeno che l’addetto/a, al momento buono, gli abbia fatto male. E le tre gestanti presenti per la curva glicemica? Ultime. Così abbiamo fatto il primo prelievo alle 9,30 e siamo uscite, spompate, alla mezza.

Che dire, quando pure le istituzioni se ne fregano, stiamo lottando contro i mulini. Ma la sensibilità non è un’opinione.

Durante la prima gravidanza, quando ancora al Carrefour la pancia dava diritto a qualcosa – io ero alla fine, quindi evidentemente incinta – ci fu un’allegra famigliola che con molta grazia mi bypassò alla cassa senza fare una piega.

Arrabbiata come una biscia, mollai il carrello a mio marito e me ne andai in macchina in attesa del suo arrivo, tirando giù improperi e santi dal paradiso. Si sa, noi donne incinte con gli ormoni ballerini… Seduta sulla mia auto ferma, notai che di fronte a me stava una station wagon parcheggiata coi piedi, tutta storta, che teneva due posti, compreso l’handicappato, ed essendo la prima della fila non era messa così perché condizionata dall’auto vicina: era stata lasciata in quel modo osceno proprio per incuria. Già che avevo l’anima per traverso, presi un foglio, una penna e scrissi una serie di rimostranze improponibili all’anonimo parcheggiatore, accusandolo di assoluta mancanza di rispetto, ecc…  e glielo ficcai sotto il tergicristallo, tanto per ricercare un senso cosmico di giustizia.

La somma soddisfazione arrivò quando i proprietari della station wagon storta uscirono dal supermercato. In quel momento realizzai che erano esattamente i disgraziati che mi avevano superata alla cassa.

domenica 1 aprile 2012

Bimbi sempre malati

Vorrei avere i mezzi e le possibilità di effettuare una sorta di analisi epidemiolgica e sociale per rispondere ad una domanda che mi arrovella da un po': perché i bambini, nell'esatto momento in cui mettono piede in un asilo, iniziano ad ammalarsi di continuo?
Che si ammalino un po', mi sta bene, è normale, devono farsi gli anticorpi che non hanno. Ma che si ammalino a ripetizione mi pare esagerato.
Mia figlia, che per tutto l'inverno ha camminato scalza sul pavimento di marmo e non si è presa neppure un raffreddore, iniziato l'asilo è andata una settimana e poi è stata a casa due, con antibiotico. Poi è tornata a scuola, altri cinque giorni e siamo di nuovo daccapo.
E' sempre stato così? Io, giuro, non mi ricordo di essermi ammorbata tanto, quando ero piccola. Ma forse ero troppo piccola per ricordare. Però ho un fratello molto più giovane di me, quando lui andava all'asilo io ero al liceo e non mi ricordo che fosse sempre a casa con l'antibiotico a settimane alterne. E se non ricordo, probabilmente è perché c'è poco da ricordare: ogni tanto gli veniva un raffreddore, punto.
Negli ultimi anni probabilmente è cambiato qualcosa. Qualcuno dice che dipende dalla presenza massiccia di extracomunitari che hanno introdotto virus nuovi. Non so valutare la bontà di tale teoria, ma personalmente mi pare improbabile, in fondo, anche senza immigrazione, c'è sempre stata gente che, viaggiando per lavoro o per piacere, è venuta in contatto con altri popoli ed altri germi.
Piuttosto mi vengono in mente altre due motivazioni. La prima è banalmente la resistenza agli antibiotici e alle medicine, di cui si fa uso massiccio, sempre più. Non so dire se i figli li vacciniamo troppo o troppo poco, ma i trattamenti sanitari in uso hanno forse contribuito a creare ceppi nuovi e più resistenti.
Ma poi c'è un'altra causa. Quando ero piccola io, c'era uno stuolo di nonne pensionate che poteva occuparsi di noi bambini quando stavamo male. Ora invece le nonne non riescono nemmeno più ad andare in pensione e i bambini o vanno all'asilo, o vanno all'asilo, senza alternativa. I genitori, impiccati al lavoro, quando ce l'hanno, non possono permettersi di assentarsi eccessivamente, per cui le classi sono zeppe di pargoli smoccolanti, febbricitanti e con la dissenteria che sono delle vere bombe biologiche per tutti i loro compagni. E così chi era guarito da un giorno si riammala immediatamente.
E' un mondo difficile già a pochi mesi d'età...

venerdì 9 marzo 2012

Pessimi vicini di casa

Ho sempre ritenuto che chi si fa i cavoli suoi campa cent'anni. Motivo per cui conosco pochissimo dei miei vicini di casa, che consistono in tutto in otto famiglie. Anni fa, quando ero andata a stare in un comune limitrofo dove non avevo parenti né amici, avevo conosciuto, durante un'attività comune, un'anziana che mi aveva detto: "Io so chi è lei! Lei è la signora che sta in via XXX, al terzo piano, con la scala sul balcone!" Ero proprio io, e la tipa, un'energica 75enne, viveva nel palazzo di fronte al mio. Io non avevo idea di chi lei fosse e nei due anni in cui sono rimasta lì a stento ho conosciuto i miei dirimpettai di pianerottolo. Ero scandalizzata. Mi sentivo osservata e spiata. Mi sembrava che ci fosse gente che sapeva tutto di me ed io nulla di loro. Forse era pure vero, ma io, fiera della mia discrezione, non avrei cambiato il mio modus vivendi, e comunque reputavo persone come quelle delle inutili impiccione pettegole.
Ora vivo in questa casa di quattro anni e ho delle vicine amichevoli, ma sicuramente più interessate di me alla socializzazione. Fino all'anno scorso, al piano di sotto, abitava, da solo, un quarantenne giovanile, un ragazzo, in sostanza, che poi è andato via. I padroni di casa avevano bisogno dell'alloggio e gli avevano chiesto di liberarlo. Era uno dei pochi che salutavo puntualmente, lui così cortese, gentile e riservato. Aveva un sorriso dal retrogusto amaro, ma sorrideva sempre. L'ultima volta che gli ho parlato era venuto a chiudere la casa dopo il trasloco. Abbiamo scambiato qualche frase, ci siamo augurati buone cose per il futuro, magari ci saremmo visti in giro per il paese (aveva trovato un altro alloggio non troppo lontano). Non l'ho più visto, e pochi giorni fa lui è morto improvvisamente. L'hanno trovato in casa i suoi amici, dopo due giorni in cui non rispondeva alle chiamate di nessuno. Mi è dispiaciuto moltissimo, era un ragazzo tanto carino ed educato, nonostante un paio di rughe d'espressione tradissero qualche sua preoccupazione.
Una cosa è sicura, però. Se la disgrazia fosse successa in questo stabile, il suo corpo non l'avrei di certo scoperto io. Forse qualche mia coinquilina, ma non la sottoscritta.
Chi sono i pessimi vicini di casa?
Ciao, T., rest in peace, il tuo sorriso mi mancherà.

Un errore di gioventù

Un errore di gioventù
Futura è incinta per la seconda volta e a Patrick sembra che il loro mondo sia perfetto, ma una notizia dal passato potrebbe scombinare tutto. Patrick infatti viene contattato da una sua ex, Arlene, che gli confessa di avere una figlia quasi adolescente, che potrebbe essere sua. Lui però non ha il coraggio di rivelarlo alla moglie.

L'occasione di una vita

L'occasione di una vita
Tre donne, tre occasioni per cambiare la propria vita. A Londra Futura rimane inaspettatamente incinta, ma Patrick inizialmente non è disposto ad accettare l'idea di diventare padre. Tra i due conviventi scende a lungo il gelo, finché il ragazzo, intenerito dall'ecografia del piccolo, decide di rivedere le proprie posizioni. Non fa in tempo però a manifestare le sue intenzioni che Futura perde il bambino e in conseguenza di ciò decide di allontanarsi, non essendosi sentita sufficientemente amata e capita durante la pur breve gestazione. A Torino Massimo e Ljuda, sposati e con due bambini, si dividono tra lavori part-time e la gestione della Casa di Accoglienza, struttura che si occupa di ospitare donne vittime di violenza che tentano di rimettere insiemi i cocci della loro vita. Ljuda però non è felice, le pesa la perenne carenza di soldi e decide, senza il benestare del marito, di partecipare al Reality più famoso d'Italia, dove è stata scritturata come concorrente, per dare una svolta alla sua esistenza.

Perché ne sono innamorata

Perché ne sono innamorata
Quanti modi ci sono per innamorarsi? E quanti per esprimere l’amore? Come inizia una storia duratura? La sognatrice Manuela, l’introversa e concreta Futura, la tenace Ljuda e la rassegnata Martina sono alle prese, rispettivamente, ma non sempre biunivocamente, con un promesso sposo altrui e inaffidabile, un ragazzo affascinante ma affetto da una patologia genetica, un seminarista e un fidanzato arrogante e violento. Impareranno, a loro spese, a discernere le relazioni sane da quelle malate.

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Sono nata a Torino nel 1975 dove ancora risiedo e lavoro. Ho pubblicato qualche romanzo e ogni tanto condivido sul blog i miei pensieri.