domenica 1 aprile 2012

Bimbi sempre malati

Vorrei avere i mezzi e le possibilità di effettuare una sorta di analisi epidemiolgica e sociale per rispondere ad una domanda che mi arrovella da un po': perché i bambini, nell'esatto momento in cui mettono piede in un asilo, iniziano ad ammalarsi di continuo?
Che si ammalino un po', mi sta bene, è normale, devono farsi gli anticorpi che non hanno. Ma che si ammalino a ripetizione mi pare esagerato.
Mia figlia, che per tutto l'inverno ha camminato scalza sul pavimento di marmo e non si è presa neppure un raffreddore, iniziato l'asilo è andata una settimana e poi è stata a casa due, con antibiotico. Poi è tornata a scuola, altri cinque giorni e siamo di nuovo daccapo.
E' sempre stato così? Io, giuro, non mi ricordo di essermi ammorbata tanto, quando ero piccola. Ma forse ero troppo piccola per ricordare. Però ho un fratello molto più giovane di me, quando lui andava all'asilo io ero al liceo e non mi ricordo che fosse sempre a casa con l'antibiotico a settimane alterne. E se non ricordo, probabilmente è perché c'è poco da ricordare: ogni tanto gli veniva un raffreddore, punto.
Negli ultimi anni probabilmente è cambiato qualcosa. Qualcuno dice che dipende dalla presenza massiccia di extracomunitari che hanno introdotto virus nuovi. Non so valutare la bontà di tale teoria, ma personalmente mi pare improbabile, in fondo, anche senza immigrazione, c'è sempre stata gente che, viaggiando per lavoro o per piacere, è venuta in contatto con altri popoli ed altri germi.
Piuttosto mi vengono in mente altre due motivazioni. La prima è banalmente la resistenza agli antibiotici e alle medicine, di cui si fa uso massiccio, sempre più. Non so dire se i figli li vacciniamo troppo o troppo poco, ma i trattamenti sanitari in uso hanno forse contribuito a creare ceppi nuovi e più resistenti.
Ma poi c'è un'altra causa. Quando ero piccola io, c'era uno stuolo di nonne pensionate che poteva occuparsi di noi bambini quando stavamo male. Ora invece le nonne non riescono nemmeno più ad andare in pensione e i bambini o vanno all'asilo, o vanno all'asilo, senza alternativa. I genitori, impiccati al lavoro, quando ce l'hanno, non possono permettersi di assentarsi eccessivamente, per cui le classi sono zeppe di pargoli smoccolanti, febbricitanti e con la dissenteria che sono delle vere bombe biologiche per tutti i loro compagni. E così chi era guarito da un giorno si riammala immediatamente.
E' un mondo difficile già a pochi mesi d'età...

venerdì 9 marzo 2012

Pessimi vicini di casa

Ho sempre ritenuto che chi si fa i cavoli suoi campa cent'anni. Motivo per cui conosco pochissimo dei miei vicini di casa, che consistono in tutto in otto famiglie. Anni fa, quando ero andata a stare in un comune limitrofo dove non avevo parenti né amici, avevo conosciuto, durante un'attività comune, un'anziana che mi aveva detto: "Io so chi è lei! Lei è la signora che sta in via XXX, al terzo piano, con la scala sul balcone!" Ero proprio io, e la tipa, un'energica 75enne, viveva nel palazzo di fronte al mio. Io non avevo idea di chi lei fosse e nei due anni in cui sono rimasta lì a stento ho conosciuto i miei dirimpettai di pianerottolo. Ero scandalizzata. Mi sentivo osservata e spiata. Mi sembrava che ci fosse gente che sapeva tutto di me ed io nulla di loro. Forse era pure vero, ma io, fiera della mia discrezione, non avrei cambiato il mio modus vivendi, e comunque reputavo persone come quelle delle inutili impiccione pettegole.
Ora vivo in questa casa di quattro anni e ho delle vicine amichevoli, ma sicuramente più interessate di me alla socializzazione. Fino all'anno scorso, al piano di sotto, abitava, da solo, un quarantenne giovanile, un ragazzo, in sostanza, che poi è andato via. I padroni di casa avevano bisogno dell'alloggio e gli avevano chiesto di liberarlo. Era uno dei pochi che salutavo puntualmente, lui così cortese, gentile e riservato. Aveva un sorriso dal retrogusto amaro, ma sorrideva sempre. L'ultima volta che gli ho parlato era venuto a chiudere la casa dopo il trasloco. Abbiamo scambiato qualche frase, ci siamo augurati buone cose per il futuro, magari ci saremmo visti in giro per il paese (aveva trovato un altro alloggio non troppo lontano). Non l'ho più visto, e pochi giorni fa lui è morto improvvisamente. L'hanno trovato in casa i suoi amici, dopo due giorni in cui non rispondeva alle chiamate di nessuno. Mi è dispiaciuto moltissimo, era un ragazzo tanto carino ed educato, nonostante un paio di rughe d'espressione tradissero qualche sua preoccupazione.
Una cosa è sicura, però. Se la disgrazia fosse successa in questo stabile, il suo corpo non l'avrei di certo scoperto io. Forse qualche mia coinquilina, ma non la sottoscritta.
Chi sono i pessimi vicini di casa?
Ciao, T., rest in peace, il tuo sorriso mi mancherà.

sabato 14 gennaio 2012

Coppie letterarie eccezionalmente ordinarie

Mi sono innamorata di Anne Holt. In senso letterario, intendo. Anzi, per essere precisi, mi sono innamorata della sua coppia di detective, Johanne Vik e Yngvar Stubø. No, non per il genere noir, per la trama poliziesca… Dell’intreccio con finale a sorpresa mi importa poco o nulla. Cioè, tutto carino, ma nulla di eccezionale. E comunque non sono una giallista-inside.
A me piace la storia d’amore tra i due protagonisti, così normale, così quotidiana. Nel mio rinnovato e recentemente riscoperto spirito romantico sono molto più propensa ad apprezzare le ordinarie tenerezze anziché le gesta epiche e spettacolari di eroi improbabili. Così ben vengano le ginocchia sfiorate dei due personaggi mentre esaminano dei documenti importanti, oppure la scena in cui, sempre loro due, discutono del profilo dell’assassino mentre lei gli taglia – troppo corti – i capelli. Un cult, secondo la sottoscritta. Forse perché “l’impresa eccezionale è essere normali”, come cantava qualcuno, tempo fa. Io apprezzo l’eccezionalità di riuscire a sopportarsi vicendevolmente per come si è.
Attualmente in Italia sono usciti i primi tre libri di Vik e Stubø. So per certo che ne esistono altri due, non ancora tradotti in italiano, e presumibilmente la vicenda evolverà ancora. Non ho idea di come l’autrice abbia intenzione di portarla avanti, ma sinceramente spero che i protagonisti non incappino nell’ennesimo divorzio, prima o poi. Giuro, non lo sopporterei. Spero con tutte le mie forze che Johanne e Yngvar rimangano l’emblema di un rapporto riuscito, e se non vivranno per sempre felici e contenti, per lo meno che siano insieme e, nonostante tutto, innamorati.

lunedì 9 gennaio 2012

Pubbliche Umiliazioni

L’altra sera mi sono trovata, un po’ volente, un po’ nolente, a guardare Italia’s got talent. Non lo farò mai più. È qualcosa di deprimente, anzi, no, di umiliante. Perché è sì vero che alcuni bei numeri sono, in effetti, particolari, fuori dal comune e interessanti, ma è altresì vero che la più parte di chi va a proporsi davanti al trio Scotti-De Filippi-Zerbi è per lo più un poveretto senza il senso della misura e senza la percezione di se stesso. Ma veramente per un momento di gloria, o meglio, di visibilità, si è così disposti a sacrificare la propria dignità? Non sto dicendo che nella vita non si debba osare, anzi, per la sottoscritta vale esattamente il contrario, ma prima di esporsi di fronte ad un “grande pubblico”, non sarebbe il caso di valutare se un “piccolo pubblico”, composto da una ristretta cerchia di pochi ma competenti amici e conoscenti certificati non ruffiani abbia gradito la nostra performance? Lo so, lo so, i miei ragionamenti sono troppo sofistici, e infatti la tv è ben lieta di mostrare certi casi umani talmente ridicoli da rasentare il grottesco, anzi, diciamolo, è sulla pelle di quei poveri diavoli che tenta assolutamente di fare audience. Altrimenti, ad un garbato Gerry Scotti e ad una neutra Maria De Filippi non affiancherebbe il graffiante Zerbi, concepito e programmato per vestire i panni del cattivo strafottente (panni in cui si trova visibilmente a suo agio, comunque). Perché a prescindere da tutto, se io avessi il sentore di avere un talento fuori dal comune, potrei pure accettare di espormi al pubblico ludibrio in cambio di un cortese “No, grazie, non sei quello che cerchiamo, la tua esibizione non è di nostro gradimento, il tuo talento potrebbe essere meglio apprezzato da un altro tipo di spettatori”, ma all’idea che uno Zerbi percepisca un lauto stipendio per prendermi in giro quando io, grottesca o no, mi sono impegnata al massimo nella mia impresa… beh, no grazie. Forse ai fini dell’audience una mera critica costruttiva risulta troppo noiosa e pedante. Ci vuole per forza uno Zerbi o un suo clone (e perché non la Maionchi?) che passi pesantemente sopra l’autostima del concorrente per tirare su gli ascolti. E questo non accade solo in trasmissioni come Italia’s got talent dove in effetti la bravura di chi si espone è talvolta opinabile, ma anche in programmi come “Amici” dove, a parte tutto, una certa preparazione di base ce l’hanno tutti i partecipanti. Uno potrà non essere “eccelso”, ma neppure così terribile. Nescio, ma di una cosa sono sicura: fintanto che in giro ci saranno giurie così politicamente scorrette, io me ne starò rintanata in casa, quale che sia il mio talento. E con il televisore spento.

BUON ANNO!

Ora che è ufficialmente finito da un pezzo e a tutte le longitudini posso dirlo: il 2011 è stato l’anno più bello della mia vita.
Non pensavo, già solo per il fatto che con il numero 11 e con i suoi multipli ho sempre avuto un rapporto controverso. Invece è trascorso bene e terminato in gloria. Ho partorito un figlio sano e tante idee creative che non immaginavo neppure di avere.
Quando è iniziato sapevo di essere incinta da poche ore e mi sono sentita subito male. Così sono stata costretta a fermarmi e a iniziare un percorso di riflessione personale che ha dato dei frutti meravigliosi.
Il 2011 ha segnato una svolta anche perché, tra una meditazione e un’altra, è iniziato in me un processo di smantellamento del sommo muro di cinismo che mi si era cementato e consolidato dentro da dieci anni a questa parte. Non avrei mai pensato che fosse ancora possibile per me vedere il mondo tinto di rosa, eppure è successo. Mi auguro soltanto che questa mia evoluzione verso l’ammorbidimento non sia facilmente reversibile.
Insomma, il 2011 per me è stato un anno di grandi regali che la Vita mi ha concesso, e per questo ringrazio tutti i giorni.
Il 2012 si prospetta già meno roseo, non fosse altro perché si è annunciato con un bel casino familiare e proseguirà con il mio inevitabile rientro al lavoro, che non è bello.
But nevermind, durerà poco: a dicembre non finisce tutto??

sabato 24 dicembre 2011

L'angolo dei bimbi: La prima parolaccia coi fiocchi

Il momento tanto temuto è arrivato. La mia adorabile bimba treenne, la Principessa Pucci-Pooh, come la chiamiamo noi, la mia dolcissima frugoletta-bocca-di-rosa se ne va fiera per la casa proclamando con voce sonante la sua prima vera parolaccia, un non propriamente natalizio: “Fanc***!!”, di cui ignora il significato, lasciando basiti me e suo padre. Primo dubbio: dove l’ha sentito? Scatta l’esame di coscienza, mio marito mi sibila, socchiudendo gli occhi: “Tu a volte dici parolacce”. Io penso e ripenso e ammetto che qualcosa ogni tanto mi scappa, ma quella parola, proprio quella, non fa parte della mia top five e neanche della mia top ten. Io dico altro, di solito si tratta del meno nobile sinonimo di “cacca” quando combino qualche casino, per esempio quando mi brucio un dito in cucina o cose di questo tipo.
Comunque il problema rimane: l’innocente creatura, percependo il nostro imbarazzo, si diverte ancora di più a pronunciare con somma soddisfazione la sua nuova conquista lessicale.
Io ringhio contro mio marito: “Fai finta di nulla, se capisce che non deve dirlo è finita!”. Ma la nostra Pucci-Pooh ci raggiunge ridendo e continua ad esclamare trionfante: “Fanc***, fanc***, fanc***!”.
Mio marito a quel punto ha un’ideona: “No, tesoro, hai capito male, la parola era ‘cubo’”, e inizia a spiegarle cosa significa “fare un cubo”, dopo avere rispolverato il vecchio gioco di Rubik.
Lei lo guarda, comincia a ripetere diligentemente: “Fare cubo”. Lo asseconda per un po’. Poi riattacca. Si vede che quella parola nuova ha davvero un bel suono.
Per ora il problema non è risolto. Abbiamo comunque deciso di non darle peso né soddisfazione e attendere che si stufi da sola. Prevedo disastri diplomatici con i parenti per il giorno di Natale.

Taboo letterari

Ci sono due argomenti di cui non avrei mai il coraggio di scrivere, neppure per esorcizzare la paura che prima o poi mi possano toccare personalmente: la morte di un coniuge in giovane età e quella di un figlio, a qualunque età. Sono per me drammi talmente inimmaginabili che non riesco proprio a figurarmi davanti ad un pc nell’intento di affrontarli e superarli.
Susanna Tamaro, che evidentemente ha molto più pelo di me, li tratta entrambi nel suo ultimo libro “Per sempre”. È noto che la Tamaro è molto brava ad immedesimarsi in personaggi disparati, talvolta, come in questo caso, anche di sesso maschile. Pare che ci riesca bene, seppure non spetti a me, che sono donna, giudicare se il punto di vista maschile della Tamaro sia credibile.
Il protagonista del romanzo è un giovane medico che perde in un colpo solo moglie incinta e figlio di tre anni, al che va in crisi e ci impiega più o meno tre lustri prima di ridare un senso alla sua vita. Ciò che stride di più nella narrazione è il peso relativo che viene dato ai due drammi: il vedovo incentra quasi esclusivamente il proprio dolore sulla perdita della compagna, mentre il povero bambino deceduto rimane una figura sullo sfondo creata ad hoc per rinforzare la portata della sciagura.
Ora, come già affermato sopra, io non sono un uomo, per cui non ho idea di come un padre, magari un padre immaturo, possa vivere la morte del suo bambino rispetto a quella della moglie, ma, per la mia personale sensibilità posso affermare che se in un unico incidente perdessi marito e figli il disastro sarebbe globale, e se poi decidessi di parlare con i loro fantasmi lo farei senza distinzione con tutti e tre, compreso quello del neonato che attualmente si esprime a base di “nghè”.
Invece, nel libro, mi pare bella e plausibile la storia d’amore tra il medico e la consorte. È la descrizione credibile, non mitizzata, di una storia concreta, che non si perde in smancerie inutili, ma che propone le mille sfaccettature di un rapporto sano tra due persone molto diverse tra loro e sinceramente innamorate. Bello!

Un errore di gioventù

Un errore di gioventù
Futura è incinta per la seconda volta e a Patrick sembra che il loro mondo sia perfetto, ma una notizia dal passato potrebbe scombinare tutto. Patrick infatti viene contattato da una sua ex, Arlene, che gli confessa di avere una figlia quasi adolescente, che potrebbe essere sua. Lui però non ha il coraggio di rivelarlo alla moglie.

L'occasione di una vita

L'occasione di una vita
Tre donne, tre occasioni per cambiare la propria vita. A Londra Futura rimane inaspettatamente incinta, ma Patrick inizialmente non è disposto ad accettare l'idea di diventare padre. Tra i due conviventi scende a lungo il gelo, finché il ragazzo, intenerito dall'ecografia del piccolo, decide di rivedere le proprie posizioni. Non fa in tempo però a manifestare le sue intenzioni che Futura perde il bambino e in conseguenza di ciò decide di allontanarsi, non essendosi sentita sufficientemente amata e capita durante la pur breve gestazione. A Torino Massimo e Ljuda, sposati e con due bambini, si dividono tra lavori part-time e la gestione della Casa di Accoglienza, struttura che si occupa di ospitare donne vittime di violenza che tentano di rimettere insiemi i cocci della loro vita. Ljuda però non è felice, le pesa la perenne carenza di soldi e decide, senza il benestare del marito, di partecipare al Reality più famoso d'Italia, dove è stata scritturata come concorrente, per dare una svolta alla sua esistenza.

Perché ne sono innamorata

Perché ne sono innamorata
Quanti modi ci sono per innamorarsi? E quanti per esprimere l’amore? Come inizia una storia duratura? La sognatrice Manuela, l’introversa e concreta Futura, la tenace Ljuda e la rassegnata Martina sono alle prese, rispettivamente, ma non sempre biunivocamente, con un promesso sposo altrui e inaffidabile, un ragazzo affascinante ma affetto da una patologia genetica, un seminarista e un fidanzato arrogante e violento. Impareranno, a loro spese, a discernere le relazioni sane da quelle malate.

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Sono nata a Torino nel 1975 dove ancora risiedo e lavoro. Ho pubblicato qualche romanzo e ogni tanto condivido sul blog i miei pensieri.